Lo sviluppo del Terzo Mondo
I Paesi del Terzo Mondo, fermi ancora ai primi stadi dello sviluppo industriale, rischiano di dover sopportare il peso maggiore della transizione verso il mondo dell’effetto serra a quello dell’era solare. Già le crisi energetiche via via più pesanti e la tendenza al riscaldamento globale stanno imponendo loro una riconsiderazione dei modelli tradizionali di sviluppo economico e degli assunti su cui si basano.
Secondo una certa saggezza corrente, più si sviluppano le economie dei Paesi già industrializzati, più il resto del mondo potrà trarne beneficio. Questo postulato è legato all’idea che più si accelera la conversione delle materie prime in beni economici più si rendono disponibili beni di valore durevole o comunque ricchezza da dividere tra le popolazioni di tutto il mondo. Dato per certo questo principio di sviluppo economico internazionale, non vi è da stupirsi se ogni avanzamento tecnologico viene visto come occasione per creare sempre più ricchezza di beni durevoli.
I principi della termodinamica forniscono invece un quadro di riferimento ben diverso: in effetti, più i Paesi sviluppati convertono le risorse grezze in beni economici, meno ne rimangono, nel magazzino della natura, per gli altri Paesi e per le generazioni future. La maggior parte degli avanzamenti tecnologici servono ad accelerare la conversione delle risorse, cioè a
sfruttarle in tempi sempre minori contribuendo a esaurire le riserve naturali e a creare nel processo sempre più rifiuti e disordine ambientale. Via via che questa situazione diventa più un dato di fatto, non dobbiamo dimenticare che le riserve ancora intatte di risorse non rinnovabili sono per la maggior parte in mano ai Paesi poveri del Terzo Mondo e costituiscono per loro l’ultima carta da giocare per contrattare una più equa distribuzione della ricchezza tra le nazioni. I produttori di petrolio del Medio Oriente in passato usarono questa leva con successo e oggi la struttura del loro cartello che controlla i prezzi e i quantitativi del petrolio esportato, viene copiata da altri Paesi del Terzo Mondo per altre risorse non rinnovabili. Esistono cartelli per regolare il prezzo della bauxite, del rame, del ferro, del cromo e del piombo. La rivista «Fortune» scrive: «Se gli esportatori di materie prime riuscissero in questo loro intento, i tempi del continuo miglioramento dei livelli di vita nei Paesi industriali sviluppati potrebbero dirsi avviati alla fine».
Coloro che sono vissuti per decenni sfruttando le massicce quantità di energia e di risorse che il Terzo Mondo forniva, facilmente avvertiranno per primi le strozzature che i cartelli generano al nostro sistema economico. Una canzoncina diventata popolare nel l’estate del 1979 riassumeva bene il senso di frustrazione di molti paesi sviluppati davanti ai prezzi del petrolio OPEC in continua crescita: <<Niente greggio, niente cibo». In altre parole: se il Terzo Mondo non ci vuole dare il suo petrolio noi dovremo tagliare le esportazioni di cibo verso gli affamati del mondo. Un comportamento egoistico di questo genere da parte nostra sarebbe non solo moralmente e politicamente insostenibile, ma metterebbe in pericolo la nostra stessa sopravvivenza. Possiamo scegliere se accettare le nuove condizioni che le nazioni del Terzo Mondo ci porranno e dare un taglio ai nostri consumi di energia e materie prime, oppure intervenire militarmente alla conquista delle risorse di cui abbiamo bisogno. La seconda ipotesi poteva apparire irrealistica alla fine degli anni Ottanta per la presenza dell’Unione Sovietica e anche di altre potenze militari, ma è comunque chiaro che la lotta per le risorse scarse potrà sempre portare in futuro a uno scontro tra potenze mondiali.
Molti di noi proprio non capiscono cosa stia accadendo nel Terzo Mondo. Anche se ci proclamiamo solidali verso la tragedia dello squallore, della fame e della sovrappopolazione che investe il Sud del mondo, in realtà non abbiamo neanche un’idea della miseria in cui vive più della metà del pianeta. Ottocento milioni di esseri umani riescono appena a sopravvivere in una condizione che la Banca mondiale definisce di assoluta povertà, con un reddito annuale di meno di duecento dollari. Da quindici a venti milioni di persone del Terzo Mondo, tre quarti dei quali bambini, muoiono ogni anno per denutrizione. Mentre state leggendo queste righe, in un minuto, ventotto persone al mondo stanno morendo per le conseguenze della fame. L’80% della popolazione mondiale, per lo più gli abitanti dei villaggi, non ha alcun sistema sanitario.”
Fino a che gli Stati più evoluti continueranno a consumare ogni anno un terzo delle risorse mondiali, il Terzo Mondo non potrà neanche aspirare a un modus vivendi tale da garantire almeno un’esistenza dignitosa. Chi si adira contro la formazione dei cartelli usati come arma economica contro i Paesi ricchi farebbe meglio a chiedersi cosa farebbe lui se vivesse in un Paese del Terzo Mondo: un Paese in cui ogni capo di Stato che lasciasse le nazioni più industrializzate libere continuare a saccheggiare le risorse naturali del territorio perderebbe qualsiasi appoggio da parte della popolazione.
Quando si parla di era dei limiti, declino delle aspettative materiali, politica di sviluppo economico zero, si fanno discorsi che per gli abitanti del Terzo Mondo appaiono soltanto un ulteriore tentativo da parte dei Paesi industriali per mantenerli in una posizione di asservimento internazionale. I Paesi del Terzo Mondo, che si sono appena affacciati alle soglie della produzione industriale, considerano le preoccupazioni ecologiche dei ricchi poco più che un tentativo delle nazioni sviluppate come gli Stati ricchi per mantenere il loro benessere, ostacolando la crescita economica tra i più poveri. In un articolo presentato in preparazione dell’assemblea del Consiglio mondiale delle chiese nel 1979, alla rivista «Faith, Science and the Future», C.T. Kurien parlò a nome delle moltitudini dando il punto di vista del Terzo Mondo sulle tesi dei «Limiti dello sviluppo»:
“Vi è una ristretta minoranza di popoli ricchi che fa montare un isterismo collettivo sulla fine delle risorse della Terra e invoca un’etica della conservazione nell’interesse di coloro che ancora devono nascere; sono gli stessi che intraprendono uno sforzo organizzato per impedire a quelli a cui è toccato essere fuori dai cancelli della loro opulenza, di accedere a un livello di vita almeno tollerabile. Non occorre una percezione soprannaturale per capire quali siano davvero le loro intenzioni.”
L’argomento di Kurien è ben posto: finché continueremo a divorare una porzione spropositata delle risorse di questo mondo dissipandone la parte in banalità, mentre il resto del mondo lotta per il prossimo pasto, non avremo nessun titolo per insegnare agli altri popoli come organizzare il loro sviluppo economico. Pertanto, se ci sentiamo veramente responsabili nell’evitare che il pianeta diventi una gigantesca discarica industriale, dobbiamo cominciare subito, volontariamente, a porre dei seri limiti nostro benessere materiale. Dobbiamo dimostrare la nostra volontà di accettare duri sacrifici in nome dell’umanità.
Le nazioni del Terzo Mondo, da parte loro, non devono coltivare la speranza di poter mai raggiunge re un’abbondanza di beni materiali analoga a quella raggiunta dai Paesi più ricchi nei decenni trascorsi. Secondo l’economista Herman Daly:
All’incirca la terza parte della produzione annuale di risorse minerarie serve a mantenere il 6% della popolazione mondiale, a un livello di consumi a cui si pensa che tutto il mondo aspiri, per cui ne consegue che la produzione attuale di risorse potrebbe apportare un livello di vita di tipo Paesi ricchi, tutt’al più al 18% della popolazione mondiale senza lasciare alcunché al restante 82%. Resta il fatto che senza i servizi dell’82% povero anche il ricco 18% non potrebbe mantenere la sua ricchezza per cui una buona parte delle risorse dovrebbe essere dedicata a mantenere la parte povera almeno alla sopravvivenza. Di conseguenza anche il valore del 18% è sovrastimato.
È dunque impossibile che il resto del mondo si sviluppi come gli Stati ricchi. In effetti, come abbiamo visto in precedenza, la scarsità delle risorse rende impossibile per gli stessi Stati ricchi continuare a vivere con una intensità energetica anche soltanto vicina a quello attuale. Non si tratta quindi di non riconosce l’assoluta necessità di incoraggiare lo sviluppo economico del Terzo Mondo, la questione è un’altra: quale tipo di sviluppo è il più adatto ai Paesi poveri? Quando il progresso occidentale approda in un Paese del Terzo Mondo il risultato di solito è un sottosviluppo immediato, ossia, la massa della popolazione di quel Paese diventa più povera di quanto lo era prima che lo sviluppo avesse inizio. Il principale motivo è che l’industrializzazione di stampo occidentale favorisce le città rispetto alle zone agricole e le produzioni ad alta intensità di capitale e di energia, fortemente accentrate, piuttosto che l’intervento dell’uomo. Di conseguenza, quando una nazione cerca di industrializzarsi, i posti di lavoro di fatto diminuiscono per via delle produzioni automatizzate. Di pari passo l’agricoltura meccanizzata, favorita dalla tanto vantata rivoluzione verde, ha l’effetto di cacciare i contadini dalle campagne. L’agricoltura meccanizzata richiede di immettere nei processi di coltivazione massicce quantità di energia che comportano costi elevati, con la conseguenza che i piccoli agricoltori vengono estromessi dal mercato e i contadini cosi spiazzati sono obbligati a traslocare in città per cercare lavoro. È una situazione che si sta verificando in tutto il Terzo Mondo. Si calcola che entro inizio del Terzo millennio un miliardo di persone in più rispetto al 1975 potrebbero essere andate ad ammassarsi nelle aree urbane del Terzo Mondo, e con l’urbanizzazione forzata si instaura la povertà. Inoltre, se l’agricoltura si adegua in tutto il mondo ai modelli Paesi ricchi, la situazione alimentare si fa sempre più precaria perché le colture diventano sempre più dipendenti da risorse non rinnovabili. Si calcola che se il mondo intero convertisse le colture al modello Paesi ricchi, l’80% di tutte le forme di energia utilizzate andrebbe a produrre alimenti e tutta la produzione petrolifera si esaurirebbe nel giro di un decennio.”
Lo sviluppo industriale a forte intensità energetica porta con sé anche altri guasti alle strutture tradizionali del vivere. Si racconta che intorno al 1880 une sceicco dell’Arabia Saudita avesse scoperto del petrolio che fuoriusciva dalla sabbia di un lontano deserto. Subito ordinò di chiudere il pozzo e proibì a chiunque di rivelare ciò che avevano visto. Perché si comportò così? Perché temeva che gli occidentali sarebbero subito arrivati con le loro attrezzature a prelevare barili, danneggiando nel contempo le tradizioni locali. Le ragioni di quello sceicco possono anche destare qualche sospetto, ma certamente i suoi timori erano ben fondati perché quando si trasportano nel Terzo Mondo le tecnologie ad alta intensità energetica esse portano con sé una ideologia a senso unico. I capi di governo continuano ingenuamente a pensare di portare in patria il benessere e la tecnologia di un Paese ricco, senza per questo importare anche una serie di valori della società tecnologica che sarebbero distruttivi per la cultura tradizionale.
Inoltre, sfortunatamente, molti Paesi del Terzo Mondo impiegano i nuovi capitali che sono riusciti a costituire per industrializzare le loro economie sulla linea degli Stati ricchi e delle altre cosiddette nazioni sviluppate. Si tratta di politiche economiche malamente concepite capaci di portare a tragica fine non solo le nazioni che le hanno intraprese, bensì l’intero pianeta dove il processo entropico progredirà ancora più rapidamente del previsto, verso il prossimo spartiacque storico. Innanzitutto, è pura follia sviluppare infrastrutture economiche basate su un flusso intenso di risorse non rinnovabili proprio quando il mondo sta precipitando verso un deficit delle risorse stesse. Nazioni del Terzo Mondo quali il Brasile e la Nigeria hanno avviato la costruzione di pesanti infrastrutture industriali operative dall’anno 2000, ma paradossalmente dovranno accorgersi che non potranno disporre a lungo dell’energia necessaria a mantenere gli impianti economicamente in attività.
In secondo luogo la crisi incalzante dell’effetto serra sta per imporre una transizione globale in cui tutti dovranno abbandonare i combustibili fossili entro i prossimi decenni. Sarà difficile, se non impossibile, per le nazioni del Terzo Mondo giustificare una continua e crescente dipendenza dalle fonti di energia non rinnovabili, sapendo che contribuiscono al riscaldamento globale e mettono veramente in pericolo la sopravvivenza della nostra specie.
É chiaro che il Terzo Mondo deve cercare forme di sviluppo differenti da quelle in atto nell’Occidente industrializzato. L’impiego di tecnologie con impianti accentrati, ad alto consumo energetico, dovrebbe essere scartato in favore di tecnologie su media scala, con impiego abbondante di mano d’opera adatte a essere attuate nei villaggi. Si tratta di una nuova via verso lo sviluppo tecnologico, essenziale se vuole invertire le migrazioni di massa dalle comunità rurali alle città squallide e sovraffollate . Sarà necessario che l’agricoltura continui a costituire la base delle società del Terzo Mondo ricordiamo che nel quadro dello di sviluppo dell’ultimo decennio i Paesi arabi importano il 50% delle loro necessità alimentari e che dopo l’anno 2000 potrebbero arrivare al 75%. Per questi come per altri Paesi del Terzo Mondo ogni sana politica di sviluppo dovrebbe puntare sulla costituzione di una base di sostentamento agricolo, con colture a forte impiego di lavoro e che possano fornire alla società tutti gli alimenti di cui ha bisogno. Già esistono modelli possibili per uno sviluppo
del Terzo Mondo: guardiamo alla Repubblica Popolare Cinese che, per quanto in difficoltà per una serie di problemi ambientali, si è almeno organizzata in modo da mantenere una società su base rurale e da incoraggiare le produzioni con maggiore apporto di manodopera. La società cinese non è ricca ma ha pochissimi disoccupati e vagabondi senza casa. Ancor più attenzione merita il modello economico gandhiano in India. Durante il movimento anticolonialista guidato da Gandhi, una ruota che gira spinta a mano divenne il simbolo della lotta: un semplice pezzo di tecnologia atto a portare ogni indiano, uomo o donna, al controllo più o meno esteso dei propri mezzi di sostentamento anche nel più povero o sperduto villaggio. L’economia gandhiana è in favore della campagna rispetto alle città, dell’agricoltura rispetto all’industria, delle tecnologie adatte a produzioni su piccola scala piuttosto che dell’alta tecnologia. Non potrà essere che questo insieme di scelte economiche prioritarie a portare a uno sviluppo del Terzo Mondo con possibilità di successo. Ricordiamoci però ancora una volta che anche le nazioni a più alti consumi energetici come gli Stati così detti ricchi dovranno trovare la volontà di sopportare sacrifici.